lunedì 21 dicembre 2009

Natale cercasi!

Scrivo questo intervento e non posso fingere di non essere alle porte di questo agitato (almeno in Italia) Natale 2009. Natale: la festa più rovinata dell’anno, la festa più amata e odiata nello stesso momento. Forse perché l’abbiamo slegata dalla vita reale di ogni giorno; perché non parla più alla ferialità; perché dice poco del senso della vita.

Ogni uomo credo cerchi un senso; ogni individuo non smette mai di voler capire quale orientamento stia dando ai propri giorni. È che quel bandolo della matassa non è poi così evidente: è nascosto, gioca, quasi bambinescamente, a non farsi trovare. Insomma, vivere è un’arte che si impara vivendo. Vivere è quell’arte che l’esperienza di Israele chiama sapienza. E sono gli stessi israeliti che ci raccontano di aver trovato questa sapienza, non in un manuale, ma in quella persona forte che è JHWH. Sintetizzando la propria storia nelle vicende di Abramo (il grande patriarca che unisce tre fedi ancora oggi), l’israelita sembra dirci che la sapienza si impara relazionandosi giorno dopo giorno con colui che è – per quanto ne sa l’israelita – il più sapiente di tutti: JHWH. Frequentando questa persona discreta ma intensamente in azione, entra in contatto con un modo di vedere il mondo e la storia diverso dal suo. JHWH è tra l’altro così convinto del suo modo di vivere che non ha bisogno di persuadere Abramo (quindi Israele) e di fatto, numerosi sono gli aneddoti raccontati, in cui JHWH lascia che Abramo corra nei dedali dei suoi pensieri e delle sue scelte non sempre così astute. Fa parte anche questo di una strategia che mira a rendere l’uomo più consapevole e certamente più libero. Sì perché l’ebreo poi torna a JHWH perché trova attrattivo e interessante lo stile di vita che egli gli propone. Non per obbligo o senso di colpa.

Sono pagine molto laiche: ci saranno capitoli e capitoli dove la cosiddetta Storia della Salvezza non presenta la figura di JHWH il quale gioca a stare dietro le quinte: cosa che sembra realizzare quello che i rabbini chiamano il tsim tsum ovvero l’idea che il creatore abbia dovuto ritirarsi per far spazio al kósmos. Come dire che c’è bisogno di un luogo in cui sia l’uomo a decidere autonomamente, se si vuole costruire qualcosa di sensato. E questo, secondo gli israeliti, JHWH stesso lo sa bene!

Nella festa del Natale, il cristiano sa che viene al mondo un uomo capace di vivere in questa stessa maniera astuta. A tal punto da credere che quest’uomo sia una cosa sola con JHWH (tanto forte è la loro unità di vedute). Una persona che, anche in questo caso, trova molto sapiente lasciare libero l’altro uomo (che chiama suo fratello). Un Palestinese che non impone questa astuzia agli altri, ma cerca e trova prima di tutto per se stesso dei motivi che siano buoni per vivere secondo questo stile. Sì perché la lotta della vita di un uomo, ridotta ai minimi termini si concentra attorno a questi poli opposti: vita o morte? Allora il cristiano sa che l’uomo Gesù da Nazareth si orienta a cercare dove c’è vita, nel corso dei suoi giorni. Sa che la sapienza del suo Maestro ha trovato più vita nel donare la vita piuttosto che nel tenersela per sé (scusate il bisticcio di parole): è il messaggio pasquale. Sa che la sapienza, la furbizia di Gesù consiste nell’aver applicato il principio del tsim tsum a se stesso, lasciando all’uomo la possibilità libera di essere il suo carnefice.

Il cristiano, nel Natale, sa ancora che il bambino che nasce giocherà la sua vita per i disperati, per gli stranieri (la sua vita inizia tra i pastori – gli immigrati dell’epoca – e termina accanto a due criminali… con buona pace dei vari White Christmas di padana estrazione); giocherà la sua vita per tutte quelle situazioni di stranierità e di disperazione che albergano nel cuore di ciascuno. Per dire che, nonostante tutto, la vita dell’uomo è così importante che preferisce perdere la sua, pur di salvare quelli che chiama fratelli.

Una festa dunque che responsabilizza: che mette l’uomo al timone delle proprie scelte, alla “condanna della propria libertà” (cfr J.P. Sartre): non è per nulla consolatorio il Natale cristiano! Mettendo al centro il povero, lo straniero, tira fuori le povertà e le stranierità di ogni uomo; elementi che danno così fastidio che è preferibile coprirli di quella melassa indigeribile di cui parla Claudio Magris in un suo intervento di qualche tempo fa. La melassa dei buoni sentimenti, lo zucchero della festa chiusa con chi non è troppo altro da me. Quella patina dorata che risulta insopportabile a chi non ha un luogo dove poter condividere qualche frammento di gioia, entusiasmo o speranza. Tant’è che proprio in questo periodo dell’anno, si registra il picco dei suicidi.

È un controsenso! Il cristiano dovrebbe celebrare nel Natale proprio la vicinanza a quelli che più fanno fatica e invece il buonismo (che non ha nulla a che vedere con l’Evangelo) ha snaturato tutto in maniera decisamente subdola. La Chiesa (intesa come tutti i battezzati) dovrebbe farsi un serio esame di coscienza in questo ambito! Spiega al mondo il Natale in modo profetico? Perché c’è un modo, anche nell’avvicinarsi al povero, che segue ancora la logica dei buoni sentimenti: ci vuole una doppia attenzione.

Natale dunque è la festa dell’umanità che diventa adulta e prende in mano la propria vita. Si potrebbe dire – neanche troppo paradossalmente – che Natale è la festa della laicità di Dio. La festa in cui anche il credente si accorge che il suo Dio non risolve i problemi, ma al contrario, gli si presenta come qualcuno che ha bisogno di cure, di affetto, di relazione.

Buon Natale allora! Che sia veramente il momento in cui raccogliere le energie per scommettere sulla vita; per non ripiegarsi sulle deviazioni del passato. Perché il credente crede che Gesù da Nazareth, il bambino, ha qualcosa di buono da raccontargli sulla vita. Ma il diversamente credente, il cercatore, il deluso condividono con il cristiano la stessa vita sulla stessa Terra con aspirazioni simili. Natale può avere allora un senso per tutti, e il senso è ancora più ricco se il cristiano lo rivela agli altri in modo scomodamente profetico; se fa capire che non è l’occasione in cui sentirsi più buoni (cosa che, in maniera illusoria, potrebbe accomunare tutti), ma è il momento in cui tutti possono (ri)cominciare a scommettere sulla vita e sulla relazione, proprio a partire da quegli esclusi, che ancora oggi sono la più grande ricchezza per noi! Buon Natale!

sabato 7 novembre 2009

Muri

Buona domenica 8 novembre 2009, vigilia del 9 novembre. Una data che ricorre più volte nella storia, particolarmente in quella tedesca. Certamente domani ricorderemo quanto accadde 20 anni fa. Per capire meglio l’evento, forse più per vivere un’esperienza dal vivo, ho pensato di andare direttamente a Berlino: una sorta di pellegrinaggio laico nel luogo che è stato il fondamento di quell’evento storico che ha concluso il Novecento (il secolo breve che secondo gli storici inizia dopo la prima guerra mondiale e termina con il crollo della cortina di ferro).

Ma ci sono, come detto, altri 9 novembre. Nel 1919 l’imperatore Guglielmo II abdica e in Germania inizia l’esperienza culturalmente ricca (ma così dannatamente fragile) della Repubblica di Weimar. Pochi giorni dopo finisce la prima guerra mondiale e l’assetto geopolitico europeo si trasforma radicalmente. Finisce l’ottocentesca e statica epoca dei grandi imperi e inizia un Novecento molto dinamico, a dir poco pieno di scombussolamenti.

La Grande Guerra termina con i principi universali dell’autodeterminazione e della libertà, ma proprio il 9 novembre di quattro anni dopo, Hitler fallisce il putsch di Monaco. E ancora sempre il 9 novembre 1938 non si può dimenticare la notte dei cristalli, nella quale vengono devastati 7500 negozi ebrei e 30 mila persone sono internate; un momento in cui si dà una forte accelerata a quel progetto che poi diventerà la Endlösung (la soluzione finale).

Insomma i sogni di libertà giacciono infranti come le vetrine della notte dei cristalli. Già, perché – anche liberata dai totalitarismi – l’Europa si ritrova divisa in due, campo di una partita giocata da potenze esterne. Spaccata da muri, soldati e reticoli di filo spinato.

E arriviamo al 9 novembre 1989. Non voglio soffermarmi sulle cause storiche della caduta del muro, non farò nemmeno una lettura cabalistica di tutte queste date coincidenti. Che però ci aiutano a trovare un fil rouge nell’eterno duello tra sogni di libertà e realtà pesanti di oppressione e divisione.

Domani a Berlino si ritroveranno politici internazionali, artefici di progetti di liberazione. Da Mandela a Wałesa e molti altri; l’hanno chiamata Fest der Freiheit, Festa della Libertà. E ci possiamo chiedere. Che ne abbiamo fatto, venti anni dopo, della libertà? Quali muri abbiamo abbattuto e quali invece rinascono vigorosi?

Il muro di Berlino, quando fu costruito nel 1961, venne motivato come un elemento che avrebbe rafforzato la sicurezza per tutta l’Europa. Già, la sicurezza. Un cavallo di battaglia che nella storia è sempre stato vincente e che tutt’ora fa da padrone a tutti i muri (Israele è solo un esempio, ma ce ne sono molti altri nel mondo). Anche dove i muri non ci sono! Nel nome della sicurezza stiamo assistendo ad un imbarbarimento dell’Europa (un imbarbarimento mascherato di buoni sentimenti grazie ad un compiacente sistema di immagine).

Ma se scaviamo più a fondo credo ci sia oggi una questione più radicale. Il muro più alto ed esteso che stiamo costruendo è quello della demonizzazione aprioristica dell’altro, di chi non la pensa come me e la mia combriccola, la mia parrocchietta, la mia nazione, la mia fede religiosa. Il muro non si erge solo tra comunitari ed extracomunitari. Si erge tra gli Europei stessi.

Certo, non si può negare all’UE il merito di aver realizzato l’impensabile (la generazione precedente alla mia aveva buone ragioni per temere uno sconfinamento nell’allora Yugoslavia; oggi si può andare da Lisbona a Tallinn senza troppi impedimenti); non si può negare all’UE che tutta questa condivisione di conoscenza, effettivamente, ci permette ancor più di apprezzare la ricchezza culturale che il Vecchio Continente ha donato all’umanità. Ma dobbiamo evitare facili illusioni che basti un muro in frantumi per aver liberato la libertà.

Prima di tutto perché questa libertà ha assunto in sé anche i connotati di un capitalismo rampante che è dilagato in maniera poco umana (per usare un eufemismo) nei territori dell’ex blocco orientale.

Secondo: è difficile creare un luogo geopolitico di scambio veramente dialogante (e la Costituzione Europea che arranca ne è un chiaro segno). Perché il demone che minaccia la libertà oggi è forse il muro del vedere come un nemico chi non la pensa come me. Non esistono le posizioni mediane, o ti schieri e ti polarizzi o sei out. È così! Avviene dalla politica, alla cultura, dalla religione alle relazioni interpersonali. Il dissenso non è così ammesso. Non è colto nella sua dimensione creativa arricchente. E allora via, si innalzano barriere di protezione delle proprie omogeneità; si fa quadrato attorno a tanti pensieri unici.

È curioso che, scrivendo agli abitanti di Efeso, san Paolo afferma che la crocifissione di Gesù “…di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l'inimicizia, per mezzo della sua carne…” (cfr Ef 2,14). Guardando alla cronaca di questi giorni si dovrebbe dire il contrario: reazioni “da muro” da entrambe le parti, invece che approfittare per dialogare sulla laicità…

Il demonizzare l’avversario avviene poi in maniera evidente in politica. Ma la politica è sempre lo specchio della società, ed è vero che siamo una società litigiosa (ogni occasione è buona per far causa a qualcuno oggi). E allora la prima domanda sulla litigiosità si sposta sulla dimensione (banale ma fondamentale) dei rapporti interpersonali. Ed è altrettanto vero che questo processo che aliena l’immagine di chi è altro da me, è stato il tipico atteggiamento dei totalitarismi (nel sogno irrealizzato di costruire una società perfetta “dei nostri”). Che sia oggi un totalitarismo individualistico?

Forse, per celebrare in maniera fruttuosa (e non solo in un gongolante autocompiacimento) la libertà del 9 novembre 1989, sarà opportuno e urgente fare memoria anche degli altri tre eventi accaduti in questo giorno dell’anno.

domenica 25 ottobre 2009

Basta apparire...

Eccomi qui al pensiero domenicale. Cuori Pensanti è il nome del blog: sì, perché – prendendo in prestito questa espressione da Etty Hillesum – oggi credo si debba elaborare una razionalità che parta dal cuore e dall’arte di saper vivere bene, prima ancora che dalla mente. E penso al documentario Videocracy, di Erik Gandini: “Basta apparire” recita il sottotitolo. Siamo circondati subdolamente da questo imperativo categorico e tutto ciò avviene anche per coloro che si reputano molto esperti ed avveduti nei confronti di questo pericolo. Basta apparire, basta costruirsi un mondo fasullo, un castello in aria, perché tanto è la sequela del pubblico, dello share, che costruisce le fondamenta per quel castello.

Oggi la realtà è tutta mediatizzata e il sistema di informazione e di spettacolo diventa una miniera d’oro, cui attingere per dare risposta alle proprie aspettative immediate. Pensiamo a quanti tentano di entrare in tutti i mille reality show. Io entro, compaio davanti al pubblico virtuale e credo di essere qualcuno; da quel momento, la mia idea ha un’eco, viene condivisa (e magari seguita) da tanti; da quel momento la mia identità non si confina più alla mia persona (il che sarebbe un buon principio di sanità mentale…), ma può essere capace di uniformare le idee altrui alle mie. Da quel momento potrei diventare un opinionista, intervistato al momento opportuno. Da quel momento potrei diventare persino un politico, un ministro…

Ma la realtà mediatizzata è (lo dice il significato letterale del termine) un luogo in cui tutto viene inframmezzato, viene mediato dal sistema di comunicazione, da quello che sempre più sarà il prolungamento dei nostri cinque sensi. Sparisce la figura del proximus, cioè del vicino. Di colui che fisicamente mi è (anche scomodamente) vicino. E allora si svuota il destinatario del mio agire, del mio vivere. Mancano quelle persone che, nell’incontro-scontro, aiutano a costruire una collettività di cittadini adulti. Spariscono proprio concretamente!

Ma rimane l’immagine. Basta apparire… e meglio sai apparire, maggiore sarà il tuo potere. Bene ricorda l’antico adagio israelitico “non farti alcuna immagine”, perché farsi un’immagine (di qualsiasi cosa o persona) equivale a rendere spasmodicamente visibile, tangibile, afferrabile e manipolabile una realtà che ci sfugge (come può essere la relazione tra due individui). È la tentazione di incasellare il non-incasellabile, per non troppo dilatare la nostra mente; è l’utopia di fermare un processo che è fluido, sempre in crescita; è il desiderio di voler controllare, mettere le mani su una terra di conquista ancora vergine; è il progetto di creare un sistema di potere che tollera tutto tranne che venga messo in discussione il potere stesso (come profetizzava Orwell). “Non farti alcuna immagine”, non cedere all’idolatria (anche laica, non solo religiosa) di voler capire tutto e subito; non credere che la scorciatoia mediatica abbia colmato le buche che ancora campeggiano nelle (in)capacità di relazionarsi da persone libere e adulte; non attaccarti al feticcio della tua immagine, perché, stretto per la paura di perderlo, si sgretola dall’interno.

Tra poco riparte il Grande Fratello (ma così si potrebbe dire anche per altri reality): come può una società propinare ai suoi cittadini la realizzazione della vita nel non fare nulla? Come può mancare una cultura del lavoro? Come si può pubblicizzare dappertutto (con i soldi pubblici) un gioco che ti dice “Se vinci, per vent’anni sei a posto, spegni il cervello e non fare nulla” (guardate le statistiche del boom che ha avuto il recente Win for Life)? Come può lo Stato (gli Stati, visto che è una moda ben diffusa in giro per il mondo) essere garante e promotore di una mentalità che, inevitabilmente, gli si rivolta contro nelle conseguenze ultime?

Sono interrogativi complessi, che riflettono la poliedricità della nostra società postmoderna; non è scontata la risposta. Tuttavia sono domande da mettere sul piatto del menù della discussione e sui due piatti della bilancia: non ci faremo alcuna immagine o basterà apparire?

venerdì 10 luglio 2009

Si parte...

Apro questo forum di scambio di idee, perché era qualcosa che stava già da tempo maturando, al quale mancava solo il colpo d'ala necessario a spiccare il volo. E penso che ora i tempi siano maturi. Parto dunque con una timidezza ben determinata, con lo spirito di chi inizia un viaggio, un po' all'oscuro di quelli che saranno gli incontri, gli scontri e le sorprese; ma sono certo che sarà tutta esperienza utile e preziosa.
Vorrei che in questo spazio potessimo raccontarci le esperienze di umanità che facciamo quotidianamente, che non stessimo a guardare il mondo da una torre d'avorio, ma cercassimo di mettere insieme i tasselli, per poter dare una lettura del mondo, non dai libri, ma dalla vita. Una lettura (anche controversa) della realtà che possa essere una voce controcorrente alla nostra società che spesso «...produce e consuma una colloidale «cultura media» che avviluppa come un chewing gum i giornali, l'università, la televisione, l'editoria, il dibattito intellettuale, livellando ed equiparando tutti i valori in una melassa sostanzialmente uniforme e facilmente digeribile, che smussa ogni reale contraddizione e scarta o disarma ogni elemento capace di mettere realmente in discussione l'ordine imperante...» (cit. Claudio Magris).

Grazie quindi a chi ha dato quel colpo d'ala che serviva e sono certo che questa partenza porterà lontano.